Teheran: Sit-in di studenti all’aeroporto, per andare a Gaza

Teheran: Sit-in di studenti all’aeroporto, per andare a Gaza

Vestiti con lenzuolo bianco chiedono di immolarsi per la causa

Teheran, 5 gen. (Apcom) – Una folla formata da centinaia di studenti universitari ha inscenato un sit-in all’aeroporto Mehran della capitale iraniana Teheran per chiedere alle autorità del loro Paese di partire per Gaza per sostenere sostenere il popolo palestinese e combattere Israele. Lo scrive oggi il quotidiano palestinese al Quds al Arabi che riferisce di “numerose adesioni” che starebbero “ingrossando la folla già imponente che si trova all’interno” dello scalo. Il sit-in iniziato nei giorni scorsi sarebbe tuttora in corso.

Il giornale, edito a Londra, afferma che i manifestanti si sono avvolti nell’ “Akfan”, (il sudario bianco con cui nell’Islam viene avvolta la salma dei morti) e portano le bandiere palestinesi e fotografie di Gerusalemme. La folla “grida slogan contro i crimini sionisti e contro la complicità di alcuni paesi arabi”, secondo al Quds al Arabi.

L’aeroporto Mehran era lo scalo internazionale della capitale fino a pochi mesi fa; è stato ora sostituito dall’aeroporto Khomeini, costruito a sud di Teheran.

Gli infortuni dell’Onu

PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE

Gli infortuni dell’Onu

unvsisrael

di Angelo Panebianco

C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato.

I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare.

Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.

La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani.

(Fonte: Corriere della Sera, 4 Gennaio 2009 )

Pacifisti o pacifinti?

Le contraddizioni dei pacifisti danneggiano la pace

La pace secondo i pacifinti

La pace secondo i pacifinti

Mi chiedo da un po’ di tempo chi sono i pacifisti. Se si tratti davvero di difensori della pace o di qualcos’altro. La risposta che mi sono dato è che a loro della pace non interessa nulla. Anzi essi sono attratti solo dalle guerre. O meglio da certe guerre, e in particolare da chi le fa certe guerre. I pacifisti si muovono solo quando le guerre vedono protagonisti gli Stati Uniti e Israele. Non si vedono pacifisti protestare contro la dittatura di Mugabe in Zimbabwe, andare nel Nord Kivu per fare gli scudi umani nella guerra civile del Congo e nelle altre guerre dell’Africa dimenticata. Perché andare in quei luoghi significa non avere alcuna visibilità magari rischi anche di morirci. Ai pacifisti non interessa il dramma del Darfur. Nè i massacri e le persecuzioni che i cristiani subiscono in India e nei paesi arabi. Loro sono razionali e razionalisti e non hanno tempo da perdere con chi si va a complicare la vita per una fede religiosa. Che poi non sarebbe altro che sciocca superstizione. Loro non bruciano la bandiera dell’Iran in cui essere omosessuali è un reato che ti può costare la vita. A bruciare spesso è la bandiera di Israele. E questo gli unisce a quel fine intellettuale di Ahamadinejad che vorrebbe che quello stato non esistesse neppure.

Difendere la pace significherebbe andare in Kashmir e fare in modo che India e Pakistan non si scannino più per un lembo di territorio di confine. O mobilitarsi in occasione di attentati come quello di Mumbai. O condannare il regime castrista e quello cinese per le continue violazioni dei diritti umani. La pace non conosce latitudini : è tale in tutte le parti del mondo. Ma ai pacifisti il concetto di pace non interessa. Essi hanno trasformato la pace in un -ismo. Il pacifismo è un ideologia, come il capitalismo, il comunismo, lo jihadismo. Essa ha i suoi dogmi di cui i pacifisti sono i gelosi custodi. Sacerdoti consacrati all’antiamericanismo e all’antisionismo che talvolta si tramuta in antisemitismo ( sempre altri -ismi), sono estremamente selettivi sia riguardo agli obiettivi da difendere sia ai tempi in cui concentrare il proprio impegno.

le bandiere bruciate sono sempre le stesse…

Torino, 1° Maggio 2008: le bandiere di Israele e degli USA vengono bruciate alla fine del corteo organizzato da Free Palestine

La pace non fa clamore. Difendere la pace avrebbe significato muoversi mesi prima dello scoppio della crisi contro Siria e Iran che rifornivano di armi Hamas. O fare sit in di protesta nella zona di confine tra Gaza ed Egitto dove anche le pietre sanno che passano armi e munizioni destinate poi ad essere rivolte contro gli ebrei. Nulla di tutto questo è avvenuto. Perché non se li sarebbe filati nessuno. Anzi rischiavano di finire in qualche prigione palestinese per ostacolo ai piani di Hamas. E perchè loro parteggiano per i palestinesi sempre e comunque; sia che a guidarli ci sia il corrotto Arafat che metteva i soldi degli aiuti nei suoi conti all’estero invece di usarli per costruire scuole o ospedali per la sua gente, sia che ci siano quei razzisti, omofobi e misogini di Hamas.

Ma la pace a differenza del pacifismo non conosce partigianeria. La pace è semplicemente un’altra cosa

Animale (a)sociale

Il “Qassam” e i suoi fratelli

Il “Qassam” e i suoi fratelli

Le conseguenze di uno dei tanti "innocui" razzi Qassam....

Le conseguenze di uno dei tanti “innocui” razzi Qassam….

Quando nel 2001 il Qassam ebbe il suo battesimo del fuoco con un lancio verso Israele pochi lo presero sul serio. Persino Yasser Arafat, se gli chiedevano di quei razzi, sorrideva con l’aria di chi ha visto di peggio e diceva: «Petardi, sono solo petardi». Dall’altra parte, un consigliere di Sharon li chiamava gli «oggetti volanti». Da allora il quadro è cambiato. Di Qassam e derivati ne hanno lanciati più di 7 mila. E sono riusciti a ridurne il costo del 20 per cento: oggi bastano circa 300 euro per produrli. All’inizio arrivavano poco oltre la barriera di Gaza. Due o tre chilometri al massimo. Adesso i palestinesi sono in grado di raggiungere con ordigni di concezione diversa un grande centro abitato a 40 chilometri di distanza. Ashdod nel nord, Bersheva a est.

SEMPLICI TUBI – I primi Qassam erano dei semplici tubi, riempiti con esplosivo fatto in casa. Facevano più rumore che altro. Li aveva creati Nidal Farahat, poi ucciso con una trappola-bomba nel 2003 mentre cercava di inventare un aereo senza pilota esplosivo. Con la sua scomparsa, la missione è passata ad altri, coordinati dal numero due delle Brigate Ezzedin Al Kassam, Adnan Al Ghoul. Un incarico a termine anche per quest’ultimo. Gli israeliani lo hanno eliminato, nell’ottobre 2004, con un raid aereo.

GLI IRANIANI – Ma come la storia di questo conflitto insegna c’è sempre qualcuno pronto a raccogliere il testimone. Con il passare degli anni, infatti, gli artificieri palestinesi li hanno trasformati in uno strumento di pressione. Se oggi Gaza è sotto le bombe è anche per “colpa” di questi razzi. Gli “ingegneri” locali, con l’aiuto di consiglieri iraniani (e di un paio di sauditi), li hanno migliorati, ne hanno allungato il raggio, reso la carica bellica più potente. Un successo che ha spinto tutti i gruppi a dotarsi del proprio missile. Status simbol da guerrigliero e mezzo per poter inserirsi nella partita con Israele. Con questi “proiettili” – davvero poca cosa rispetto alle bombe al laser di un F 16 israeliano – i palestinesi possono cercare di dettare alcune regole del gioco. Interrompono una tregua, costringono Gerusalemme a reagire, tengono in ostaggio la popolazione civile, provano a porre condizioni, sfidano la macchina da guerra israeliana. Quel cilindro con pochi chili d’esplosivo non è solo un’arma, ma anche una moneta di scambio. Per l’esercito israeliano equivalgono a punture di spillo e non dovrebbero neppure essere considerati. Eppure tenendo sotto tiro il sud di Israele diventano una grana politica e strategica. Spingono il governo a chiedere ai generali risposte magiche che non possono dare, creano tensione. E gli esperti israeliani avvertono: eliminare totalmente la minaccia dei Qassam è impossibile. Dopo quattro giorni di incursioni il comando di Gerusalemme ha annunciato la distruzione di un terzo dei 3 mila ordigni in possesso di Hamas. Ciò vuol dire che i fedayn possono andare avanti per giorni.

IL PRECEDENTE – I palestinesi si sono convinti dell’importanza dei razzi dopo aver assistito, nel 2006, alla guerra tra Israele ed Hezbollah in Libano. Giorni di bombardamenti non hanno impedito ai guerriglieri sciiti di continuare a lanciare le katiuscia contro il territorio avversario. Così, nei due anni seguenti, Hamas ha deciso di ampliare il proprio arsenale. Con la collaborazione dei “tecnici” della Jihad islamica – piuttosto bravi nella ricerca -, ha migliorato le officine di produzione, ha ottenuto il decisivo appoggio degli iraniani.

Attraverso i tunnel sono stati contrabbandati – data: agosto 08 – ben 8 mila tubi poi trasformati nel “corpo centrale” di ordigni da 90 mm, con un raggio d’azione di 22 chilometri. Sono poi arrivati missili di concezione sovietica – i vecchi Grad -, altri di origine cinese e iraniana. Alcuni assemblati, altri da montare. Teheran ne avrebbe realizzato un tipo facile da trasferire lungo le gallerie che passano sotto il confine Egitto-Gaza. Sempre gli iraniani hanno fornito le indicazioni per rendere più potente la carica e per garantire una vita più lunga. I primi Qassam erano piuttosto delicati ed erano frequenti gli incidenti. Resi più affidabili rimangono però un’arma assai imprecisa e che avere successo deve essere usata con tiri “a salve”. Ha però il vantaggio di poter essere trasportata agevolmente su un camioncino, nascosta in piazzole preparate o in silos sotterranei. In alcuni casi è anche possibile attivarla con un timer per dare modo ai lanciatori di mettersi al sicuro. I razzi sono poi diventati un’alternativa ai kamikaze riuscendo comunque a procurare il terrore. E questo per Hamas è già un successo.

Guido Olimpio

(Fonte: Corriere della Sera, 31 Dicembre 2008 )

Teheran, bruciato negozio Benetton perchè “filo-sionista”

Atto di ostilità contro il marchio, considerato “filo-sionista”

Teheran, bruciato negozio Benetton

Una delle tante pubblicità filosioniste della Benetton.....

Una delle tante pubblicità filosioniste della Benetton.....

Un quotidiano iraniano: «L’arrivo della catena italiana aveva già provocato proteste»

TEHERAN, 31 Dicembre 2008 – Un negozio della catena italiana Benetton è stato dato alle fiamme nelle prime ore del mattino a Teheran in segno di protesta contro l’offensiva israeliana a Gaza. Lo riferisce lo ‘Straits Times’ di Singapore, citando l’iraniano ‘Jomhuri Eslami’. Secondo il quotidiano iraniano, con il gesto si è voluto colpire Benetton perché «legato alla rete sionista», aggiungendo che l’apertura dei negozi dell’azienda di Treviso «ha scatenato numerose proteste negli scorsi due anni».

INCHIESTA – La boutique si trovava a Dowlat street, nella ricca zona settentrionale della capitale iraniana. I vigili del fuoco di Teheran hanno aperto un’inchiesta.

Corriere.it

L’opportunita’ persa

L’opportunita’ persa

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di Piero Ostellino

Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L’opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa. Le premesse della crisi stavano nell’eventualità di un acuirsi della divisione fra integralisti, contrari a soluzioni di pace, movimento palestinese moderato e governi islamici favorevoli. La crisi di questi giorni conferma che, fra le due prospettive, a prevalere è stata la seconda. Ancora una volta sono state le divisioni all’interno del movimento palestinese e, in parte, dello stesso mondo arabo a prevalere, riaccendendo il conflitto. Con il lancio di missili da parte di Hamas contro le popolazioni israeliane limitrofe, cui ha fatto seguito l’inevitabile reazione di Israele.

Il successo di Hamas nelle elezioni per l’amministrazione di Gaza, nel gennaio 2006; la rottura, nel giugno 2007, dell’accordo con Al Fatah, raggiunto solo poco più di tre mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, ne erano state le avvisaglie. C’è un convitato di pietra che blocca ogni possibilità di pace. È l’Iran. Che sostiene il rivendicazionismo di Hamas; che, con la sua corsa all’armamento atomico, inquieta Israele, l’Occidente e pressoché l’intero mondo arabo, dall’Arabia Saudita—promotrice, nel marzo 2002, dell’iniziativa Arab Peace e fallita nel 2007 — all’Egitto, alla Giordania. Forse non è superfluo ricordare che l’articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad; che all’articolo 13 si invoca la guerra santa; che il nazionalismo del movimento affonda le sue radici nell’interpretazione di Teheran della religione. La maggioranza del mondo arabo è per la pace. Lo testimoniano — al di là delle condanne di rito di Israele e delle manifestazioni di piazza—le reazioni alla crisi di Fatah. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha ricordato di aver implorato Hamas a non rompere il cessate il fuoco. L’Egitto fa trapelare che esiste un piano Iran-Hamas-Fratelli musulmani per creare disordini in Palestina e nel suo territorio. Tacciono la Giordania, l’Arabia Saudita, i palestinesi della West Bank. L’attacco israeliano—invece di ricompattarlo contro Israele, come vuole una tesi propagandistica anti israeliana — ha rinsaldato il mondo arabo contro Hamas e l’Iran. È un ulteriore segno che Ariel Sharon aveva visto bene.

(Fonte: Corriere della Sera, 29 dicembre 2008 )

I paesi arabi moderati a Israele: «Uccidete i capi di Hamas»

I paesi arabi moderati a Israele: «Uccidete i capi di Hamas»

di Fiamma Nirenstein

A perdere la pazienza sono soprattutto ormai i paesi arabi moderati: una notizia bomba fa rumore fra le decine di missili Kassam e Grad che hanno terrorizzato e ferito gli israeliani di Sderot e dei kibbutz vicini a Gaza alla vigilia della fine della tahadiyeh, la tregua con Hamas, che si conclude oggi.

Israele è incerta sull’intervento, ha di fatto già lasciato che la copertura della tregua lasciasse che Hamas si munisse di armi di lunga gittata e di un sistema di difesa efficiente, e consolidasse un grande sistema di tunnel. Il ministro della difesa Ehud Barak insiste nel dire «decideremo stadio dopo stadio qual è la strada migliore», mentre i cittadini di Sderot invocano l’intervento dell’esercito che li salvi dalle bombe. Ma certi Paesi arabi non sono della stessa opinione del mondo politico israeliano: scrive sul quotidiano Ma’ariv il famoso commentatore Ben Caspit che certi messaggi di leader arabi chiedono a Israele di eliminare i capi di Hamas. Uno di questi messaggi dice: «Tagliategli la testa». I leader temono che Hamas ricominci una guerra terroristica capace di infiammare tutta l’area.

La leadership di Gaza che si chiederebbe di colpire ha nomi e cognomi, secondo Caspit. Fra gli armati, Ahmad Labari, capo dell’ala militare e Ibrahim Gandur, più volte ferito. Fra i politici, si parla addirittura di Ismail Haniya, il primo ministro, di Said Siam, ministro degli Interni e di Mahmud al Zahar, uno dei leader più duri. Per capire le ragioni dell’eventuale richiesta araba, bastano due fattori. Il primo è quello dell’appartenenza di Hamas ai Fratelli Musulmani, diramata in tutto il Medio Oriente, jihadista senza compromessi contro ogni atteggiamento moderato. Hamas, specie sull’Egitto con cui ha un rapporto molto teso dopo averne rifiutato la mediazione con Abu Mazen e aver disertato con molta sfacciataggine l’incontro del Cairo che avrebbe dovuto costruire l’unità, ha un effetto domino che minaccia i regimi correnti.

La seconda ragione riguarda l’Iran, che minaccia i regimi moderati «forse più di quanto minacci Israele», ci dice il vice capo di Stato maggiore Dan Harel. Hamas è ormai una pedina strategica del regime degli ajatollah: Teheran e Damasco sono stati i primi responsabili dell’abbandono del tavolo egiziano da parte di Hamas, in particolare lo è stato Khaled Masha’al, che ha base a Damasco. Questo asse preme perchè Hamas non rinnovi l’accordo di tregua, sia per incastrare Israele in una guerra che lo metta nell’angolo dell’opinione pubblica internazionale, sia per impedire che l’Egitto possa vantare una vittoria strategica moderata.

Ma anche i più aggressivi fra i personaggi di Hamas sanno che la linea dura potrebbe essere la loro fine. Israele per ora pare abbia risposto che non leverà le castagna dal fuoco a nessuno: i nostri primi obiettivi, pare pensi la leadership militare, sono i terroristi che sparano i missili sui nostri cittadini, e non i grandi capi.

Il Giornale

Thanks to Esperimento

Vice presidente iraniano: “La cancellazione del regime sionista deve essere un obiettivo globale”

Vice presidente iraniano: “La cancellazione del regime sionista deve essere un obiettivo globale”

Il Vice Presidente iraniano Esfandiar Rahim Masha

Il Vice Presidente iraniano Esfandiar Rahim Masha

La Mecca, 10/12/2008 “La cancellazione del regime sionista deve essere un obiettivo globale”. Lo ho dichiarato martedì il vice-presidente iraniano Esfandiar Rahim Masha. In pellegrinaggio alla Mecca, Masha si è incontrato con il presidente sudanese Omar el-Bashir al quale ha detto che “il regime sionista corrotto e criminale nuoce non solo al mondo arabo-islamico, ma anche a tutta l’umanità perché è all’origine della maggior parte delle crisi del mondo attuale”. Pochi mesi fa lo stesso Masha aveva suscitato scandalo in Iran affermando che “l’Iran è amico di Israele”.

(Fonte: Israele.net)

Iran: studenti attaccano sede diplomatica Egitto colpevole di “cooperazione con Israele”

Iran: attacco contro ufficio Egitto

studenti attaccano ufficio Egitto

Iran: studenti attaccano ufficio Egitto

Studenti fondamentalisti contestano cooperazione con Israele

(ANSA) – TEHERAN, 8 DIC – Scontri sono avvenuti a Teheran fra polizia e studenti fondamentalisti che cercavano di attaccare la sezione d’interessi dell’Egitto. Lo riferisce l’agenzia Fars. Durante una manifestazione per ”protestare contro la cooperazione del governo egiziano con il regime sionista”(Israele), alcuni giovani, appartenenti alle milizie dei volontari islamici, hanno lanciato petardi contro la sede diplomatica. Poi hanno fatto un sit-in nella strada antistante e recitato preghiere prima di andarsene.

Gli arabi cominciano a fare mea culpa sulla questione palestinese

Quel bacio tra Arafat e Khomeini

Gli arabi cominciano a fare mea culpa sulla questione palestinese

di Andrea B. Nardi

La morte di Arafat ha permesso per la prima volta un concreto avvicinamento fra Israele e l’Anp. D’altro canto, oggi ci troviamo a fare i conti con l’Iran che a Gaza fomenta Hamas nella destabilizzazione del processo di pace. Due casi emergono in questi giorni a conferma di quanto siano distanti le mire dell’Iran e di Hamas dagli interessi dei palestinesi.

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Una delle istituzioni moderne eticamente più imbarazzanti è il comitato per l’assegnazione del premio Nobel per la pace, da decenni specializzatosi nell’arzigogolare su per i pinnacoli del politically correct. Esempio recente ne è stata l’assegnazione all’anodino Al Gore per presunti meriti ecologistici, subito smentiti e smascherati da ogni parte.

Tuttavia il caso più penoso fu certo nel 1994, quando venne insensatamente attribuito addirittura ad Yasser Arafat, non solo assassino di civili e capo del terrorismo palestinese, ma responsabile proprio dell’interruzione di quel processo di pace appena avviato il 9 settembre 1993 dalla firma con cui il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin aveva riconosciuto l’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese. Da quel momento Arafat – per puri interessi di potere personale – smantellò sistematicamente il processo di pace mantenendolo nello stallo che avrebbe fatto fallire il trattato di Oslo, aumentando la tensione terroristica con attentati e omicidi, fino a raggiungere il culmine nel 1999 col fallimento del vertice di Camp David, seguito dalla seconda intifada.

Oggi Arafat non c’è più, e la sua morte ha finalmente affrancato la dirigenza palestinese dal suo peso ingombrante, permettendo per la prima volta da oltre mezzo secolo un concreto avvicinamento fra Israele e l’Anp di Abu Mazen. D’altro canto, oggi ci troviamo a fare i conti con la regia dell’Iran khomeinista che fomenta Hamas nella destabilizzazione terroristica del processo di pace. Chi ci va di mezzo, come sempre, è la carne di due popoli, costretti a una guerra miserabile per le brame feudali di pochi baroni mediorientali, siano essi presidenti, dittatori, boss del contrabbando o ayatollah. Due casi emergono in questi giorni a conferma – neanche ce ne fosse bisogno – di quanto siano distanti le mire imperialistiche dell’Iran e dei suoi vassalli di Hamas dagli interessi del popolo palestinese: un’intervista e un viaggio.

L’intervista l’ha rilasciata Mash’al Al-Sudairi, columnist saudita del giornale londinese Al-Sharq Al-Awsat. Il giornalista ha criticato il mondo arabo per la sua ossessione per l’occupazione israeliana e la sua indifferenza di fronte all’occupazione di altri territori arabi compiuta da stati musulmani – per esempio l’annessione alla Turchia del distretto siriano di Alexandretta (adesso Iskenderun), oppure la recente occupazione con cui l’Iran si è impadronito di tre isole degli Emirati Arabi Uniti nel Golfo Persico (Greater Tunb, Lesser Tunb e Abu Moussa). A proposito della questione palestinese, dalle parole di Al-Sudairi trapela un profondo rimpianto e il rimorso per la responsabilità dei paesi arabi e dei dirigenti palestinesi verso la tragedia mediorientale: «Non c’è dubbio che l’occupazione ebraica di una parte della Palestina costituisca una grande questione, che non abbiamo mai saputo come affrontare. Quando negli anni 30, infatti, ci venne offerto l’80% della Palestina, mentre agli ebrei veniva offerto il 20%, abbiamo rifiutato. Alla fine degli anni 40 ci venne offerto il 49% della Palestina e il restante 51% agli ebrei, e noi abbiamo ancora una volta rifiutato l’offerta. Oggi, li stiamo supplicando di darci il 22%, quello che rimane della Palestina, e loro ci offrono solo il 20%».

«Ora io non voglio parlare sotto il profilo politico, ma voglio soltanto denunciare come gli arabi non si rendano ancora conto dei danni che si sono auto inflitti nella loro storia. Per sessant’anni il mondo arabo ha concentrato tutti i propri sforzi soltanto sulla questione palestinese, ma con una continua incertezza che ha esaurito ogni nostra risorsa, capacità, tempo e perfino la nostra libertà. Nello stesso tempo non abbiamo fatto altro che colpi di stato, guerre, omicidi, arresti, espulsioni, summit, commerci di armi, conferenze, attribuendoci reciproche accuse e tradendoci di continuo. Io scommetto, e sono pronto a farlo di fronte ad Allah, che se solamente il 10% del denaro investito dai paesi arabi per gli armamenti e le loro stupide guerre fosse stato investito nella costruzione dei territori palestinesi e nella stabilizzazione di quel popolo, adesso il West Bank e Gaza avrebbero un tenore di vita più elevato di Singapore. A causa dei tumulti provocati in Palestina, invece, noi abbiamo completamente trascurato il fatto che altri paesi arabi abbiano rubato parti di territori alla luce del sole, e mai una sola parola di protesta si è levata dal mondo arabo». Il tutto a discapito della pace, come dimostra un semplice dato: la bandiera su cui oggi si fonda la guerra di Hamas e degli estremisti arabi è la creazione di quei due stati separati che gli arabi stessi non hanno voluto nel 1948 e per cui hanno scatenato questa tragedia sessantennale. Adesso il motivo del contendere sono i confini del 1967 che si rifanno al piano di Ginevra, a sua volta fondato sulla creazione britannica della Palestina e allora rifiutato dagli arabi.

Il secondo dato che enuncia l’assurdità di questa situazione viene da un recente viaggio in Israele di un ebreo italiano, di cui celiamo il nome per la sua sicurezza. Ne risulta un mondo sommerso di gente normale, arabi ed ebrei che nei paesi e nei quartieri limitrofi vivono una quotidianità semplice fatta di gesti pacifici e di sostegno umano, ma celata agli occhi degli estremisti per timore di orrende rappresaglie. Ci si saluta, si beve il tè assieme e si chiacchiera disillusi e rimpiangendo una pace che i vecchi sanno di non riuscire a vivere abbastanza per vedere realizzata. Ebrei e palestinesi si vedono di nascosto sviluppando una forte solidarietà fra la gente comune, indipendentemente dalla religione, ma sono costretti a scappare appena sono in vista di qualche gruppo estremista. Una vita fatta di passeggiate circospette per evitare cecchini e delazioni, un mondo di rimpianti per tutte le occasioni mancate, un mondo che nemmeno i giornali riescono a raccontare. Un mondo, infine, dove per gli estremisti arabi è più importante la guerra a Israele piuttosto che la pace del proprio popolo.

L’Occidentale